Avete presente la scena di “I love shopping” in cui Rebecca, la compratrice compulsiva protagonista del film, lotta con le unghie e con i denti per aggiudicarsi un paio di stivali Gucci in saldo?
Che tu lo ammetta o meno, probabilmente anche tu ti sarai ritrovato/a in una situazione simile almeno una volta nella vita. Anche tu avrai sperimentato quella sensazione per cui la ragione non ha speranze contro i prezzi stracciati di un capo all’ultima moda di cui non hai bisogno ma che proprio non vuole smettere di chiamare il tuo nome.
Ecco, quella cultura consumista irrazionale che ha ispirato pellicole come “I love shopping” e che da anni popola la nostra quotidianità sotto forma di pubblicità, immagini e giornali, è il motivo per cui oggi si parla tanto del bisogno di una moda più sostenibile. Ma come siamo arrivati a questo punto?
In passato fare shopping era un evento raro e ben diverso da come lo intendiamo noi oggi. L’atto dell’acquisto era dettato da necessità invece che da impeti sociali. Si acquistava a inizio stagione e non all’arrivo di ogni nuova collezione (che nel caso di marchi come Zara corrisponde ad ogni due settimane). Si acquistavano capi di lunga durata, i quali venivano valutati sulla base della loro funzionalità e non di tendenze stagionali destinate a morire nell’arco di poche settimane.
Poi con l’arrivo dei grandi magazzini a metà dell’Ottocento e la produzione di massa nel Novecento, lo shopping inizia a colorarsi di accezioni nuove: comprare diventa una forma di intrattenimento, i centri commerciali un punto di ritrovo, e l’ampia gamma di prodotti disponibili aumenta il desiderio di avere, indossare e mostrare. Tuttavia, mentre la macchina da cucire accelerava la produzione moda, non solo nelle fabbriche iniziavano a registrarsi i primi incidenti dalle conseguenze disastrose, ma iniziavano anche a farsi sentire le minacce della produzione di massa sull’ambiente.
Negli ultimi anni la coscienza di tantissime aziende di moda è riuscita a farsi spazio in un mercato capitalista che opera all’insegna del profitto, accelerando i ritmi di produzione e minimizzando i costi. Purtroppo, però, dietro l’illusione di una maglietta pagata 3 euro che al consumatore può sembrare un affare si nasconde una realtà in cui a pagare il vero costo di quella maglietta sono l’ambiente, i lavoratori e, in fin dei conti, il consumatore stesso. E sapete perché? Perché, come Rebecca ha imparato a sue spese, anche quello che sembra puro cashmere in realtà non lo è. “I love shopping”, infatti, più che normalizzare lo shopping compulsivo (come molti pensano abbia fatto) ci insegna una lezione importante; e cioè che, come afferma Luke di “Fare fortuna risparmiando”, costo e valore sono due cose molto diverse. Quale prezzo può mai giustificare un lavoratore privato del salario minimo, succube di un sistema che lo tratta come fosse una macchina e mette a rischio la sua vita ogni giorno? Quale prezzo saresti disposto a pagare per una pelliccia che nasce dalla tortura e l’uccisione? Esiste davvero così tanto denaro capace di barattare la vivibilità del nostro pianeta con ordini di produzione sempre più grandi?
Superata l’estasi dei saldi e tornata a casa, Rebecca realizza che il suo nuovo cappotto di cashmere non è che di cashmere solo al 5%. Ecco, mentre sulla percentuale dei materiali che compongono un capo non ci sono dubbi (o quasi), quello che l’etichetta non ci dice è la percentuale di CO2 generata per produrre il capo che compriamo. Lo sapevi che il settore moda produce più CO2 dei trasporti aerei e marittimi internazionali messi insieme? Un’etichetta non ci dice neanche che per realizzare un paio di jeans sono necessari quasi 9.500 litri d’acqua. La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici stima che la produzione di un solo paio di jeans richieda 1 chilo di cotone, la cui coltivazione richiede a sua volta tra i 7.000 e i 10.000 litri d’acqua. Così tanta acqua ti disseterebbe per i prossimi 10 anni!
E se vi dicessi che c’è un modo per comprare un paio di jeans senza utilizzare quei 9500 litri d’acqua? Comprare capi di seconda mano! Negozi vintage, mercatini e siti come Vestiaire Collective sono solo alcuni dei tantissimi modi per contribuire alla trasformazione del settore moda senza rinunciare ad un guardaroba ricco, vario e che ci rappresenti!
Hai presente quando in “Alice nel paese delle meraviglie” Alice si distrae incuriosita da un coniglio bianco alquanto singolare e decide di seguirlo? Mi chiamo Chiara e la moda è il mio coniglio bianco che mi porta alla scoperta di mondi meravigliosi. È per questo motivo che, una volta terminati gli studi, vorrei fare della mia passione per la moda una carriera contribuendo alla creazione di una moda più sostenibile ed inclusiva.
l’incendio della fabbrica Triangle Shirtwaist, situata nel cuore di New York, causa la morte di 146 operai tessili, per la maggior parte donne. Ancora oggi rimane uno dei più grandi disastri industriali di tutti i tempi.
all’estetica dell’abbondanza che ha caratterizzato il dopoguerra si oppongono i movimenti anticonsumisti di cui si fa portavoce la cultura hippie.
con la nascita del prêt-à-porter e la crescente globalizzazione del settore moda sorge l’esigenza di regolare il commercio, tutelare i lavoratori e minimizzare l’impatto ambientale della filiera. Nascono così organizzazioni no-profit come la World Fair Trade Organisation e alleanze di sindacati come Clean Clothes Campaign (Campagna Abiti Puliti).
durante il primo decennio del nuovo secolo nasce il Global Organic Textile Standard (GOTS), il più importante standard internazionale per la produzione tessile nonché garanzia di una manifattura responsabile. Durante lo stesso periodo nasce la Sustainable Apparel Coalition (SAC), un’alleanza di marchi, fornitori, NGOs e istituzioni operanti nel settore moda che si impegnano a creare una supply chain che sia più rispettosa delle risorse naturali ed umane.
il modello di business dei retailers di fast fashion diventa sempre più comune, il numero di negozi di fast fashion vede una crescita sempre maggiore ed il consumatore si abitua a prezzi sempre più competitivi.
mentre il fast fashion invade anche l’Italia, la Camera Nazionale della Moda Italiana inaugura il Manifesto della Sostenibilità per la Moda Italiana con l’obiettivo “di favorire l’adozione di modelli di gestione responsabile lungo tutta la catena del valore della moda”.
crolla il Rana Plaza, un edificio di otto piani che ospitava le fabbriche di diverse imprese tessili. In questa tragedia sono rimasti uccisi più di 1000 operai tessili. Questo episodio ha ispirato la nascita di Fashion Revolution, un movimento mondiale formato da attivisti che si battono per un’industria della moda più umana, più etica e più trasparente.
viene presentato in anteprima al Festival di Cannes “The True Cost”, un documentario che denuncia la cruda realità di sfruttamento che si nasconde dietro i capi che vediamo in vetrina.
The Fashion Pact, presentato in occasione del G7 Summit, riunisce aziende globali leader del settore moda che si impegnano ad arrestare il riscaldamento globale, ripristinare la biodiversità e proteggere gli oceani.
Hai presente quando in “Alice nel paese delle meraviglie” Alice si distrae incuriosita da un coniglio bianco alquanto singolare e decide di seguirlo? Mi chiamo Chiara e la moda è il mio coniglio bianco che mi porta alla scoperta di mondi meravigliosi. È per questo motivo che, una volta terminati gli studi, vorrei fare della mia passione per la moda una carriera contribuendo alla creazione di una moda più sostenibile ed inclusiva.